Il punto dell’esperto sul PIAO. A cura di M.BALDUCCI

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16/05/2022

Uno dei punti qualificanti dei tentativi di riformare la nostra pubblica amministrazione è rappresentato dal “Piano Integrato dell’Attività e dell’Organizzazione” – noto oramai con l’acronimo PIAO – introdotto dall’ art. 6 del DL 80/2021 (convertito con la legge 6 agosto 2021, n. 113). Obiettivo del PIAO è la semplificazione in linea con gli impegni presi con la Commissione UE. Dopo le prime dichiarazioni trionfali del ministro (riportate nel sito del Dipartimento della Funzione Pubblica e in varie interviste rilasciate alla stampa) stanno emergendo una serie di problemi che fanno del PIAO, non tanto un passo in avanti nella riforma della nostra pubblica amministrazione, quanto una pietra di paragone per capire perché i tentativi di riforma della nostra amministrazione sono sin qui stati dei fallimenti. Vale quindi la pena soffermarsi sui problemi che il PIAO presenta. Essi possono essere classificati in tre categorie: (a) problemi formali, (b) problemi di vera e propria cialtroneria e (c) problemi sostanziali che, possiamo anticipare, sono riconducibili alla assenza di una cultura dei processi. Innanzi tutto una breve nota sui problemi formali. Il PIAO dovrebbe semplificare perché impone l’integrazione di una serie di piani che le pubbliche amministrazioni sono obbligate a mettere a punto in un piano unico, appunto il PIAO. Orbene l’art 6 della legge 113/2021 al comma 5 specifica che verranno emanati uno o più Decreti del Presidente della Repubblica (DPR) per stabilire quali adempimenti dei piani da integrare nel PIAO debbano sopravvivere al PIAO (sic!). Questo comma 5 ci solleva due domande:

(i) perché si rinviano a strumenti normativi successivi cose che potrebbero essere stabilite in questo stesso atto normativo?

(ii) se degli atti da integrare nel PIAO sopravvivono alcuni adempimenti, il PIAO è una vera semplificazione?

Nel sistema da noi in vigore i DPR vanno messi a punto dal Consiglio dei Ministri e sottoposti ad un parere del Consiglio di Stato e delle Commissioni competenti per materia della Camera e del Senato (ex l. 400/1988). Orbene il parere del Consiglio di Stato e quello delle due camere sono trancianti: il Consiglio di Stato e i due rami del Parlamento, valutando il testo di DPR relativo alla individuazione dei provvedimenti che devono sopravvivere nei singoli piani da integrare nel PIAO, in effetti danno un giudizio sul PIAO stesso, giudizio tutt’altro che positivo. Il combinato disposto del testo dell’art 6 della legge 113/2021 e del DPR chiamato a individuare gli adempimenti che sopravvivono al PIAO viene approvato “a condizione”. Cioè il PIAO è attualmente in un limbo e vi resterà sin tanto che non si provveda ad apportare i cambiamenti formalmente necessari. Interessante notare che il Consiglio di Stato non considera il PIAO una semplificazione ma un adempimento aggiuntivo, una complicazione! Difficile non essere d’accordo. Con un linguaggio psicologico la vicenda potrebbe essere definita “coazione a ripetere”: nei tentativi di riformare la pubblica amministrazione ripetiamo gli stessi errori che stanno alla base della necessità di apportare delle riforme!

La cialtroneria normativa

Il legislatore non ha chiaro dove vuole andare. Ne consegue che le sue norme sono disarticolate, scoordinate e contraddittorie. Vediamo qui alcune delle cialtronerie più eclatanti. Chi deve realizzare il PIAO? Nell’art. 6 della l. 113/2021 è specificato che il PIAO debba essere realizzato da tutte le amministrazioni con più di 50 addetti, con l’esclusione delle amministrazioni scolastiche. Nel decreto del Ministro Brunetta del primo dicembre 2021 contenente le linee guida per l’attuazione del PIAO si danno indicazioni per provvedimenti relativi anche alle amministrazioni con meno di 50 addetti. Da quando in qua un decreto ministeriale può sovvertire la gerarchia delle norme e variare le norme stabilita da una fonte superiore quale è la legge? Quando deve essere realizzato il PIAO? Nell’art 6 della l. 113/2021 viene specificato che il PIAO deve essere realizzato entro il 31 gennaio, cioè dopo l’approvazione del bilancio preventivo. Nel decreto del Ministro della Funzione Pubblica del primo dicembre 2021 viene chiaramente specificato che il PIAO deve corrispondere, per gli enti locali, al Documento Unico di Programmazione, versione strategica (DUP strategico) che gli Enti Locali sono chiamati a mettere a punto entro l’estate dell’anno precedente a quello di applicazione del bilancio preventivo. Nello schema di DPR sottoposto al vaglio del Consiglio di Stato e delle Camere si sostiene che il PIAO deve corrispondere al Piano Esecutivo di Gestione (PEG) che gli Enti Locali mettono a Punto dopo aver approvato il Bilancio preventivo. In questo caso si presenterebbe un ulteriore problema: il PEG è un documento operativo approvato dalla giunta, mentre il PIAO e i programmi che assorbe sono dei veri e propri atti regolamentari che vanno, pertanto, approvati dal Consiglio. Il testo dell’art. 6 della legge 113/2021 è un incredibile esempio di incapacità di stendere un documento normativo. Più che un documento in cui si stabilisce che cosa va fatto sembra un testo di letteratura. I piani da integrare nel PIAO non sono listati ma vanno dedotti da una serie di considerazioni più o meno criptiche. Al punto che non è nemmeno semplice stabilire quali piani vadano integrati nel PIAO. La semplice lettura di questo art. 6 risulta molto istruttiva e rende immediatamente comprensibile a chi abbia voglia di fare questo semplice esercizio quanto confuse siano le idee del legislatore.

I problemi sostanziali riconducibili alla assenza di una cultura dei processi

Per chiarire questo punto vale innanzi tutto la pena mettere a fuoco i piani che andrebbero coordinati nel PIAO. I programmi che vanno coordinati (non solo e non tanto per semplificare ma per garantire una buona gestione della cosa pubblica), secondo il PIAO sono:

(i) il PdO (Piano degli Obiettivi previsto dall’art 108 del Testo Unico Enti Locali/TUEL Dlgs 267/2000),

(ii) il POLA (Piano Organizzativo del Lavoro Agile ex art. 263 del decreto-legge n. 34 del 2020),

(iii) piano del fabbisogno di personale (ex Dlgs 165/2000 e anche Dlgs 118/2011),

(iv) del PTPC (Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione ex dell’articolo 1 della Legge 6 novembre 2012, n. 190). Il PIAO dovrà anche specificare,

(v) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare,

(vi) le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilità alle amministrazioni nonché

(vii) le iniziative volte a garantire la parità di genere,

(viii) i meccanismi della gestione della performance ex Dlgs 150/2009.

Quello che non è chiaro al legislatore è che tra questi piani esiste una gerarchia di priorità: non tutti i piani possono essere realizzati in parallelo e nessuno può essere realizzato indipendentemente dall’altro. Alcuni di questi piani, inoltre, sono assurdi e/o ridondanti. Il POLA, ad esempio, è una conseguenza del piano della digitalizzazione. Il piano della digitalizzazione deve venire necessariamente dopo il piano della reingegnerizzazione dei processi. Il piano anticorruzione merita alcune considerazioni a parte. La corruzione si contrasta fondamentalmente in un modo solo: riducendo al massimo (possibilmente a zero) gli snodi in cui qualche funzionario è chiamato prendere decisioni discrezionali. Questo si ottiene proceduralizzando i flussi lavorativi stabilendo per ogni snodo decisionale le norme secondo cui la decisione va presa e trasformando le firme autorizzative a seguito di decisioni discrezionali in firme di assunzione di responsabilità a seguito di una verifica neutra della presenza/assenza dei requisiti necessari alla decisione. L’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) ha previsto la mappatura dei processi. L’ANAC ha però dimenticato che non basta mappare i processi ma bisogno modificarli per ridurre al minimo gli snodi di decisioni discrezionali. L’anticorruzione si sovrappone quindi alla digitalizzazione ed è esattamente la stessa cosa della reingegnerizzazione dei processi. Qui va evidenziato che digitalizzare il lavoro amministrativo non significa fare con il computer le stesse cose che in origine venivano fatte con la macchina da scrivere / word processor e la carta (archivi). Digitalizzare significa proceduralizzare il lavoro in modo che possa essere automatizzato. Il piano del telelavoro (non lavoro agile o smart work che sono cose diverse che possono essere fatte anche senza il telelavoro) rientra in questa tematica. Dalla reingegnerizzazione si possono derivare quasi tutti gli altri obiettivi del PIAO e nel dettaglio: il piano della performance (di quanto aumenterà l’efficienza della macchina proceduralizzandola e informatizzandola?) e il piano di fabbisogno di personale, sia dal punto di vista quantitativo (quanto personale farà risparmiare la digitalizzazione) che dal punto di vista qualitativo (di quali nuove competenze ci sarà bisogno). Il piano formativo segue a ruota. Il piano per favorire l’accesso è scindibile in due tematiche: l’accesso in via telematica e l’accesso fisico.

Per l’accesso il via telematica ricadiamo sull’area reingegnerizzazione.

Per l’accesso alle strutture fisiche ricadiamo, per quanto riguarda gli enti locali, sul “piano delle opere pubbliche”, piano che manca a livello regionale e locale (assenza che sta creando non pochi problemi al PNRR).

Resta fuori il piano per raggiungere la parità di genere. Personalmente sono convinto che l’evoluzione del sistema di inquadramento delle risorse umane indispensabile per la reingegnerizzazione / digitalizzazione sarebbe un’ottima occasione per favorire la parità di genere.

 

I processi sono quindi l’asse portante dell’integrazione dei vari piani.

 

Il legislatore (in questo caso il Ministro Brunetta o chi per lui) non è ancora arrivato a percepire questo problema ma sta percependo un problema la cui soluzione potrebbe essere l’inizio dell’introduzione di una organizzazione per processi. Il legislatore, mano mano che tenta di dipanare la matassa dell’integrazione dei vari piani, scopre che un piano ha bisogno di un obiettivo verso cui tendere. Illuminante è lo schema tipo allegato al decreto ministeriale del primo dicembre 2021. Qui si suggerisce alle varie amministrazioni di declinare il PIAO in tanti obiettivi di impatto (definiti espressamente come obiettivi di outcome). Qui entra in gioco il vero problema del PIAO: il fatto che tale piano non è integrato nel ciclo della gestione budgetaria. Nel testo della legge (art. 6 della l. 113/2021) il PIAO va messo a punto dopo il bilancio preventivo. Il che significherebbe che prima si decide quanto spendere e solo dopo si decide che cosa fare con quello che si spende. Qui non solo ci troviamo di fronte ad un assurdo ma tale assurdo contrasta con l’introduzione di una contabilità per missioni, di una contabilità, cioè, che articola la spesa non più per natura ma per destinazione. Tale contabilità si basa sulla legge 42 del 2009 e si articola nei d.lgs. 91/2011 per le amministrazioni centrali, 118/2011 per gli enti locali e regionali e 18/2012 per le università. Il fatto è che l’introduzione di una contabilità articolata per missioni sul versante della spesa resta, anche a livello normativo, incompleta. Quello che manca alle missioni della nostra contabilità è l’obbligo di individuare un obiettivo. Fin tanto che non si completerà la riforma della contabilità con l’introduzione dell’obbligo di indicare gli obiettivi per ogni missione il passaggio da una organizzazione gerarchica e reattiva ad una organizzazione pro-attiva orientata al raggiungimento di obiettivi resterà incompiuto. La mancata integrazione dei piani nel ciclo budgetario e la assenza di obiettivi per le varie “missioni” del bilancio preventivo vanno, del resto, di pari passo con un assurdo eclatante relativo ai meccanismi miranti ad incentivare la performance. La valutazione della performance è scissa e affidata, schizofrenicamente, a due organismi separati: il raggiungimento degli obiettivi (la cui valutazione spetta all’Organismo Indipendente di Valutazione /OIV) e la valutazione della spesa (che spetta ai revisori dei conti). Ci si dimentica che la performance è data dal rapporto “costi sostenuti/ prodotti realizzati” o, meglio ancora “costi sostenuti / impatto ottenuto”. I meccanismi incentivanti la performance si riducono, quindi, in una serie di adempimenti burocratici. È oramai indispensabile fare un salto di qualità e uscire dalla condizione patologica della “coazione a ripetere” che svuota ogni tentativo di riforma della nostra amministrazione. Questo salto richiede la consapevolezza delle cause del nostro malessere. Cause che vanno ricercate nella storia della nostra amministrazione, della sua nascita e del suo sviluppo. Qui ci permettiamo di riassumere schematicamente gli snodi fondamentali di questo sviluppo. Sostanzialmente si tratta di due snodi, uno relativo al quando la nostra amministrazione è nata ed uno relativo al come la nostra amministrazione si è consolidata.

Il quando.

La nostra amministrazione deriva da quella piemontese che, a sua volta, derivava da quella francese, via Belgio di cui nel 1848 era stata copiata la Costituzione del 1831, costituzione che accoppiava i principi della rivoluzione francese con l’istituto della monarchia. Dietro la costituzione belga il Piemonte si trascina anche il diritto amministrativo di origine francese. Orbene il diritto amministrativo francese si sviluppa durante la rivoluzione per mettere una camicia di forza sopra una amministrazione che già esisteva come braccio operativo del sovrano assoluto ed era molto efficiente. Si pensi che l’école nationale des ponts et chaussées, la scuola che formava i funzionari tecnici che costruirono la viabilità su cui si basava l’unità dello stato francese, risale ad un secolo prima della rivoluzione, al 1704. Orbene il Piemonte importa la “camicia di forza” ma non ha “il pazzo” da contenere. Interessante notare che nel periodo 1865-1871 durante il quale stava operando per estendere il modello amministrativo piemontese, in Toscana si guardò bene dal modificare l’amministrazione esistente, amministrazione che si basava su competenze tecniche e non giuridiche, competenze acquisite al Theresianum di Vienna, la scuola che dal XVII secolo formava i funzionari degli Asburgo. Qui non va dimenticato che la Toscana era governata dagli Asburgo-Lorena. Da questo intreccio storico deriva il fatto che la nostra amministrazione ricerca nella norma giuridica soluzioni a problemi che dovrebbero ricadere nella sfera della competenza professionale dei quadri dirigenti. In effetti in una amministrazione sana non dovrebbe sentirsi il bisogno di obbligare per legge a fare dei piani. I piani dovrebbero essere il risultato della professionalità del management. Del resto conosco non pochi segretari comunali e sindaci che mi dicono che il PIAO di fatto nei comuni in cui operano si fa oramai da anni, perché altrimenti non si potrebbe governare una città.

 

Il come dello sviluppo della nostra amministrazione.

Quello che viene a mancare nell’architettura pubblica del nostro paese è l’architrave della legittimazione della potestà pubblica. Tale architrave si è venuto affermando nei paesi che hanno conosciuto la rivoluzione protestante. In tali paesi il potere del sovrano non poteva più legittimarsi, dopo la riforma protestante, su base religiosa e la funzione dell’apparato di governo non poteva più giustificarsi come preparazione alla vita dell’al di là. Tale giustificazione doveva diventare giocoforza di natura funzionale e terrena: il potere dello stato si giustificava perché garantiva il Wohlfahrt (da cui più tardi l’inglese welfare), cioè il benessere o, in latino, il commune bonum. Basti pensare che Sikkendorf nel XVII secolo teorizzava che lo stato avrebbe dovuto garantire ad ogni cittadino maschio per lo meno una parrucca. La nostra amministrazione, concepita come camicia di forza e senza una legittimazione funzionale, si consolida negli anni ‘80 dell’800 con Crispi. Si consolida, cioè, in una fase in cui su ca. 25 milioni di abitanti in Italia avevano il diritto di voto meno di un milione e 400 mila individui, diritto che veniva esercitato da meno della metà degli aventi diritto. Non dobbiamo meravigliarci se la nostra amministrazione si configura come una catena gerarchica in cui il dirigente è concepito come “il signore del servizio” ed in cui i singoli dipendenti sono inquadrati secondo le loro qualifiche che sono definite non dai compiti da svolgere ma dalle “attribuzioni” di cui dispongono. Non dobbiamo meravigliarsi se in questa amministrazione mancano obiettivi e processi. Dobbiamo invece prendere consapevolezza che la riforma della nostra amministrazione deve iniziare ab imis fundamentis e rimuovere questi meccanismi profondi che si trasmettono di generazione in generazione grazie al meccanismo della formazione del neoassunto on the job, cioè per affiancamento, meccanismo che replica le prassi esistenti senza lasciare spazio alla loro evoluzione.

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